domenica 15 ottobre 2006

Scaccomatto


“Guarda.
Si riparano tutti dove possono, come tanti insetti.
A quanto pare hanno dimenticato di portarsi l’ombrello.
Questa stanza è diventata grigia tutto d’un tratto.
Illuminata solo per un istante da un lampo.
Troppo poco.
L’unica cosa che riesco a fare adesso è starmene affacciato qui, a vedere le formiche.
Mi piace il rumore della pioggia che batte sulla finestra.
Le gocce che cadono sul vetro, e scivolano giù…
Ognuna di esse, durante la discesa, traccia un tragitto del tutto imprevedibile.
Alcune sembrano persino gareggiare tra di loro, si superano a vicenda per poter arrivare prima al traguardo.
Altre invece si incontrano a metà strada. E decidono di unirsi.
Alla fine arriveranno insieme. Saranno una cosa sola.
Io e te siamo come due gocce d’acqua.
Scivoliamo sulla nostra finestra.

E’ incredibile come il nostro percorso sia segnato da momenti così diversi tra di loro. Momenti felici e sereni, ma anche momenti di smarrimento, di solitudine, di tristezza.
Camminiamo attraverso stati d’animo sempre nuovi, tappe del nostro percorso dalla natura mutevole.
Ci spostiamo da una casella ad un’altra, come pedine su una scacchiera.
Dal bianco al nero. Dal nero al bianco.
Proseguiamo il nostro cammino muovendoci sempre in avanti, spesso senza neanche rivolgere lo sguardo alle spalle.
Se abbiamo paura…Ancora avanti.
Vedi, ciò che ho di fronte a me in questo momento…
...io non riesco a capirlo.
Vorrei che ci fosse lei.
Ogni volta che la guardo il respiro mi viene a mancare.
Tutto all’improvviso perde importanza.
Io…lei.
Il resto sfuma e svanisce.

Bianco.

Soltanto in quei momenti riesco davvero a rendermi conto dell’esistenza del tempo, perché comincia a scorrere troppo velocemente.
Sfuggente.
Così a volte è questione di attimi. Un attimo, e la luce si spegne.
E quando sei al buio, avere gli occhi aperti o chiusi fa poca differenza.
A quel punto temi di rimanere senza via d’uscita,  perché credi di aver perso di vista quello per cui stai lottando.
Quel qualcosa che ti dà la forza di riprendere a camminare.
Quella luce che ognuno di noi è destinato ad inseguire e bramare.
Rimani in apnea ancora una volta. E la partita è finita.

Nero.

Accade troppo spesso, vero?
Crediamo di esserci persi, e abbiamo paura.
E’ questo che leggo ogni volta nei tuoi occhi.
Tu credi di esserti perso?
In molti dicono che questo mondo sia una merda, ma continuano a calpestarlo perché pensano che farlo gli porterà fortuna.
Non è così, te l’assicuro.
La verità è che non siamo in grado di guardare dentro noi stessi, perché abbiamo paura di non riuscire a comprendere quello che vi troveremo.
Beh, vedi, io credo che l’unica cosa che i nostri occhi non siano capaci di vedere
è il volto di cui fanno parte.
Possono vederne solo un’immagine riflessa, o un ricordo passato conservato in una foto.
Ma ora prova ad aprirli, ad alzare lo sguardo, a respirare quello che hai intorno.
Prova.

Vale la pena di vivere per le nuvole.
Vale la pena di vivere per camminare sotto la pioggia.
Vale la pena di vivere per gli occhi dei bambini.
Vale la pena di vivere per i sogni.
Vale la pena di vivere per i ricordi.
Per ogni singolo, inutile istante.
Sei nato.
Tu sei odio.
Sei amore.
Sei gioia e dolore.
Tu sei tu.
Tu e basta.
E per questo vale la pena di vivere.
Ti prego, prova a guardarmi negli occhi mentre ti parlo.
Vorrei soltanto riuscire a farti capire cosa significhi essere felice.”

Non disse nulla.
Poi finalmente alzò la testa e mi fissò. Sorrideva.
Mi sembrò felice, ma il suo sguardo voleva imbrogliarmi.
Quegli occhi mentivano, credendo di aver trovato quello che io ancora oggi sto cercando.
Il mio respiro cominciò ad inseguire i battiti del cuore.
E in quel momento non riuscii a vincere l’istinto.
Nel silenzio, chiusi gli occhi.
Buio.
Lo colpii, con un pugno diretto al volto.
Gli scagliai contro tutto me stesso.
Poi caddi in ginocchio, privo di forze.
Non provai alcun tipo di dolore.
Denti stretti.
E di nuovo luce.
Guardai il dorso della mia mano segnato da enormi e profondi tagli.
In un attimo avevo ricoperto il tappeto di sangue, lacrime e frammenti di vetro.
Per mia fortuna non sono mai stato superstizioso.

giovedì 13 luglio 2006

Lampione solitario


Esterno notte.
Taglio di luce da un lampione solitario.
Sguardo fisso sul marciapiede, con gli occhi che galleggiano nel buio.
Terrorizzato ed avvolto da un macabro senso di inquietudine.
Respiro, ma non ce n’è bisogno.
Ordino alle mie gambe di farmi alzare, e dopo un po’ obbediscono.
In silenzio, ascolto quello che la città ha da dirmi.
La pioggia percuote il terreno, scandendo innumerevoli frammenti di tempo.
Sirene che abbaiano seguono ai rumori di saracinesche forzate.
Bottiglie di vetro passeggiano nelle pozzanghere.
Cammino barcollando, e sento odore di fuoco.
Mi rendo conto che lui mi sta cercando.
Calpesto lentamente le mie impronte, e con il cuore che rimbomba mi accascio di nuovo.
Sento un’ombra distendersi su di me.
Una fredda canna di pistola mi gratta sulla nuca.
Tuono.

Risveglio improvviso.
Ascelle sudate.
Gola in fiamme.
Morsa alla testa.
Se non avessi trent’anni, non mi vergognerei di essermi pisciato a letto.
Tenebre.
Mi domando dove sono, ma non ho voglia di rispondermi.
Il mio corpo si muove meccanicamente in direzione del cesso.
Cerco sul muro l’interruttore della luce di quel lurido buco.
Fallisco.
Rimango al buio, e mi affido alle insegne intermittenti di un motel.
Senso di nausea e stomaco in subbuglio.
Mi aggrappo al lavandino.
Lo riempio di vodka e patatine fritte semi-digerite.

“Quanti anni hai?” mi domanda una voce di donna da lontano.
Io sono a terra e fisso un soffitto che non c’è.
“Quanti anni hai?” chiede nuovamente, ma stavolta è più vicina.
“Trenta.” penso.
“Zitta.” rispondo.
Mi tiro su.
Lei è sull’uscio, con indosso la sua vestaglia, e mi esamina.
“Vieni a letto.” comanda.
Mi avvicino a lei.
Profondo scambio di sguardi.
So cosa vuole da me.
Il suo profumo mi scioglie la mucosa nasale.
Afferro con decisione le sue spalle.
Poi la sposto, perché mi ingombra la porta.
Mi infilo il mio impermeabile. E’ pesante, stasera.
Nessun saluto, e sono in strada.
La pioggia taglia le nuvole in migliaia di coriandoli.
Corro e riprendo a respirare. Ne ho bisogno.
Annuso l’aria mentre vengo trivellato da brandelli di cielo.
L’ossigeno mi entra nei polmoni come un carico di mattoni.
Lontano, nel buio, catturo l’immagine della mia preda.
Il suo profilo inquadrato da un lampione solitario.
E’ incapace di fuggire, ma fa del tentativo la sua ultima ragione di vita.
Estraggo il ferro dalla tasca.
La caccia si apre.
Si rende conto che l’ho trovato.
Il suo sguardo è più veloce delle sue gambe.
Un muro gli fa da boa, ma i suoi arti cedono.
L’ultimo abbraccio che ottiene è quello della mia ombra.
La mia pistola gli raschia la nuca.
Nonostante abbia trent’anni, tra pochi attimi si vergognerà di essersi pisciato a letto.
Tuono.
Fine.

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