Gryeph – la Saga del Taumaturgo
Una miniserie gothic-fantasy in 4 capitoli edita da Saturnalia Smart Publishing – Testi: Matteo Carnevale – Disegni: Enrico Carnevale
B.A.U. – Beceri approcci umorali
La ministoria vincitrice del MArteLive 2011 Sezione Fumetto - Storia e disegni: Enrico Carnevale
Outerside
Una breve storia in vertical scroll realizzata per il sito www.verticalismi.it in occasione del 24 Hour Italy Comics 2011 – Storia e disegni: Enrico Carnevale
venerdì 26 novembre 2010
martedì 23 novembre 2010
Matite sporche
"Ciò che si vuole con sufficiente energia riesce."
Se non si riesce a fare una cosa (o anche più di una), e ci si ciondola comodamente in inutili scuse, non ha senso star lì a dare la colpa al tempo, ai periodi, o quant'altro.
La colpa è solo nostra.
Ma si sa, siamo tutti troppo autocommiserativi, e ci piace così.
Ma si sa, siamo tutti troppo autocommiserativi, e ci piace così.
Qualora un pensiero del genere riuscisse ad entrare con una certa chiarezza e costanza nella mia routine, forse diventerei un minimo più soddisfatto da ciò che faccio.
Deliri a parte, ieri ho finito le matite della storia per E.F. Edizioni (portate avanti con la mia ormai imprescindibile lentezza).
A Enrico sono piaciute.
A Matteo anche (nonostante io debba "disegnare meglio quel cazzo di cavallo").
Personalmente, posso dire di ritenermi abbastanza convinto di ciò che ho disegnato.
Le tavole, con la dovuta modestia, non sono affatto malaccio.
Certo, c'è da dire che sono sporchissime, imbrattate qua e là da macchie grafitiche a forma di impronte digitali. Lavoro con troppa foga, mi sa.
Certo, c'è da dire che sono sporchissime, imbrattate qua e là da macchie grafitiche a forma di impronte digitali. Lavoro con troppa foga, mi sa.
Son sorpreso; a volte riesco a stupire anche me medesimo.
In ogni caso non è che voglia star qui a "vantarmi", anche perchè le tavole vanno ancora inchiostrate, ergo c'è il rischio che comprometta senza troppi complimenti il lavoro fatto sin'ora (così come c'è il rischio del contrario, of course).
Ultimamente sono molto prolifico. E non solo a livello di disegno. Sarà che piove sempre. Boh.
Mi capita di fare un sacco di cose, e di lasciarne troppe in lista di attesa. E io non son buono ad usare agende, organizer e diretti derivati.
E' un casino, cavolo.
Due settimane fa ho fatto un'illustrazione per Manicomic, una rivista promossa ed edita dalla mia ex scuola, la quale appunto mi ha commissionato il lavoro.
In tre hanno visto il disegno, a tre persone è piaciuto. En plein.
La rivista uscirà in Dicembre, perciò fino ad allora mi è stato chiesto di tenere il disegno topp sicret.
Da non fraintendersi. Pare vi stia parlando di chissà cosa, ma alla fine non vi perdete nulla. E' solo uno dei soliti disegni stupidi che faccio io.
La scorsa settimana invece mi è stata proposta una nuova collaborazione.
In realtà altro non sarebbe se non un qualcosa che ho già fatto anni addietro, con solo qualche sottile differenza.
Comunque sia, fino a domattina non avrò bene le idee chiare, quindi per ora taccio e mi limito a dire soltanto questo.
Mi rimangono inoltre ancora un bel po' di cose da fare.
Ne elenco un alcune, poichè son solito dimenticare le cose. Almeno così ce le ho scritte pubblicamente e sono più facilmente contestabili da terzi.
Devo inchiostrare le suddette tavole.
Devo finire la copertina di Gryeph (e magari, in un giorno lontano, pubblicarlo).
Devo disegnare una tavola autoconclusiva per Saso (me lo ha ricordato lui qualche giorno fa. Io avevo rimosso, appunto).
Devo finire la copertina per il demo di mio fratello.
Magari prima o poi riuscirò pure a disegnare qualcosa per me, che non mi dispiacerebbe affatto.
Ciò che si vuole con sufficiente energia riesce.
Continuo a scaricare pennarelli.
Finiscono che è una bellezza. Ogni volta che vado a ricomprarne se ne partono roba come venti euro.
E c'ho pure lo sconto.
p.s. se ho dimenticato qualche disegno da dover fare, chiunque legga questo post e si senta preso in causa è libero di segnalarmelo. Proprio perchè, sappiatelo, è probabile che io l'abbia dimenticato.
Ora esco.
Ciao.
mercoledì 10 novembre 2010
α Leonis
Ermete riaprì
gli occhi.
Inizialmente, come ovvio che sia, fu luce. Abbagliante e stordente. Gli
schiaffeggiò la retina come uno sciame di aghi trascuratamente sterilizzati.
Poi iniziò a distinguere qualcosa. Tre linee, fondamentalmente. Una verticale,
le altre due inclinate di sessantagradi all’incirca, speculari e sovrastanti la
prima.
Le linee si
congiungevano in un punto, che solo dopo alcuni istanti si rivelò essere
l’angolo in cui si incontravano due delle pareti della stanza ed il soffitto.
Tutto lentamente cominciava a delinearsi. L’effetto fuori fuoco si
dissolveva lasciando spazio ad una rinvenuta distinzione della realtà.
Il bianco dei
muri era intaccato da impronte e manate, e da enormi macchie verdastre, dovute
all’umidità di qualche infiltrazione. Una di queste in particolare attirò la
sua attenzione. Aveva una forma strana, gli ricordava quella del Kenya.
Una macchia a
forma di Kenya.
Lo sguardo piombò poi diritto davanti a sé, laddove un’esedra di donne vestite
di blu circondava il letto sul quale egli stava disteso.
Quando dico
“donne”, però, è opportuno fare una precisazione, affinchè non disperdiate i
pensieri in luoghi comuni e stereotipati.
Erano brutte.
Alcune anche grasse. Cinque o sei in tutto, non di più.
“E’ sveglio!”
disse quella meno brutta.
“Sì! Guarda! Ha
aperto gli occhi! Si è svegliato!” le fece eco la più grassa.
E da lì più o
meno tutte e cinque (o sei) a ripetere frasi similari, in un gorgoglio
affannoso di parole.
Ermete era
confuso, oltre che inaspettatamente inorridito.
“Largo, largo! Che sta succedendo?” squittì una voce dalle retrovie del muro
femmineo.
Poi, scostando
con un gomito le tette della grassona, fece capolino sulla scena un omuncolo,
in camice bianco macchiato di pesto.
Ermete fissò il
grande paio di occhiali che lo inquadrava. Dall’enorme montatura si
affacciavano due pupille sbilenche dalle dimensioni di una coppia di angurie,
alle quali stava appesa una faccia sottile e smunta.
Il nanetto si
rivolse in primo luogo al distorto harem.
“Si può sapere
che cosa fate tutte qui?”
“Pausa
sigaretta” rispose quella con la voglia sulla guancia.
“Il mio
paziente non è una sigaretta. Sciò.”
Le donne
scomparvero.
“Bene, bene.”
disse poi l’omino rivolgendosi ad Ermete “Ci siamo svegliati, eh? Ce la siamo
presa comoda, eh? Dormito bene?”
Il dottorino
ammiccò. Era il classico tipo di persona che si crede simpatica.
Ermete tentò di
rispondergli male, ma aveva ancora la gola in panne.
“Vediamo un po’
in che condizioni siamo, ok?” e ammiccò nuovamente.
Con un numero
di prestigio fece fuoriuscire dalla manica una cartellina di metallo, dal cui
interno sbucarono una trentina di fogli di carta. Prese poi a scannerizzarli
con gli occhi, e ad ogni cambio di foglio annuiva e diceva “uhm, uhm.”
“A quanto sembra
qui abbiamo un bel po’ di lavoro da fare. Ma non si preoccupi, ora che si è
svegliato le cose saranno molto più semplici, signor, signor…” guardò su un
foglio “…Ermete.”
Poi tentò di
rimettere in ordine le sue scartoffie, riuscendo senza nemmeno troppo sforzo a
farne cadere più della metà a terra.
“C-Chi…” Ermete
prese finalmente a parlare.
“Come dice?”
domandò l’esaminante, tirandosi su.
“Chi…chi
diavolo è lei?”
“Io? Sono il
vostro dottore, mi prenderò cura di lei d’ora innanzi. Per qualsiasi cosa, basterà
chiamare e io arriverò in un baleno. Al vostro servizio, sir!” e sfoggiò la
dentatura.
Il paziente
rimase basito.
“Per caso le
hanno mai detto che lei è una persona davvero simpatica?” chiese Ermete.
“Ahahah! Beh,
onestamente no.”
“Allora forse è
il caso che cominci a domandarsi come mai nessuno lo abbia mai fatto.”
Il dottore
tentennò.
Poi sorrise,
poi ammiccò, poi se ne andò.
*****
L’uscita di
scena silenziosa e solenne del piccolo omino non turbò più di tanto la quiete
di Ermete.
In quel momento
c’erano cose più importanti sulle quali porre la propria attenzione.
Dove fosse e
perché si trovasse lì, ad esempio.
Ad occhio e
croce, il luogo appariva come un ospedale, o qualcosa di simile.
Un ospedale
vecchio e sporco.
Sì, qualcosa di
simile.
Ma perché era
lì? Si era risvegliato, ma da quanto tempo stava dormendo?
Pensò ad un incidente, al superamento di uno stato comatoso. Il dottore non
aveva accennato a nulla di tutto ciò. Lui sorrideva e ammiccava solamente.
Pensieri
sottili cominciarono a sovrapporsi come un castello di carta. Nulla riusciva a
stare in equilibrio.
Se davvero era
stato coinvolto in un incidente, doveva essersi trattato di qualcosa tanto
grave da intaccare persino la sua memoria.
Eppure niente,
non riusciva a ricordare.
Provò a perlustrare il proprio corpo in cerca di segni, ferite rimarginate,
cicatrici. Nessuna traccia.
Era intatto,
come nuovo. O almeno così pareva.
Cominciò a
spazientirsi. Sentì crescere il desiderio di abbandonare il letto e fuggire, ma
non aveva ancora le forze necessarie.
A quel punto quel silenzio soffocato di teorie confuse fu interrotto.
“Lei non è
certo un uomo gentile. Direi piuttosto scostumato.”
Ermete di colpo
si accorse di non essere solo nella stanza. Era talmente preso dai suoi
pensieri che aveva smesso di usare gli occhi.
La voce
proveniva da ore tre. Ermete si voltò e vide un’asta metallica alla quale stava
appesa una flebo.
Prima che
potesse cominciare a parlare con quell’oggetto, però, la voce riprese.
“Sono qui, se è
me che cerca.”
Era dietro.
Dietro la flebo. C’era un letto. Sul letto stava seduto un uomo. Salutava con
la mano. E’ da lui che proveniva la voce.
“Ah, e lei chi
sarebbe? Di certo, non una persona gentile, dal momento che si è appena
lasciata scappare un pregiudizio senza fare troppi complimenti.” Ermete ringhiò
pure.
“Ha ragione,
errore mio. Son contento che si sia svegliato, finalmente ho qualcuno con cui
poter parlare.”
“Fantastico.
Più tardi sarò lieto di offrirle un caffè, così diventeremo grandi amici. Ora,
perché non mi dice che razza di posto è questo?”
“E’ una
clinica.”
“Una clinica,
certo. Ma io non sto male.”
“Se si trova su
quel letto, evidentemente quest’affermazione è errata.” e rise beone.
“Ne dubito. Da
quanto tempo è che sono qui? Per quanto ho dormito?” Ermete mitragliava
domande.
“Qualche mese,
credo. Cinque, sei forse. Si è fatto un bel sonnellino. Eheheh!”
“La cosa la
diverte? Bene, mi sento sollevato. Evidentemente per lei è comodo riderci su.”
‘Sei mesi,
cazzo’ pensò Ermete. Sei mesi di buio. E prima? Buio anche quello.
Dopo una breve
pausa, decise di domandare.
“Che cosa mi è
successo? Chi mi ha portato qui?”
“E’ una domanda
che si pongono un po’ tutti, appena svegli. Dopotutto, è più che lecito.”
“Non mi ha risposto.”
“Nessuno, nessuno. Nessuno l’ha portata qui, mio buon
amico.”
“Ah, certo. Allora sono nato qui. Oppure mi ci sono
teletrasportato. O peggio, sono venuto da solo, di mia spontanea volontà.”
“Non esageriamo adesso. Si può nascere negli ospedali,
certo, ma mica ci si vive. E il teletrasporto è roba da fantascienza. Ad ogni
modo, ciò che ha detto è corretto.
Lei qui ci è venuto da solo.”
*****
In quel momento
un’infermiera cigolante irruppe nella stanza. Era brutta anch’ella.
Spingeva un
carrello tremante, sul quale stavano impilati dei vassoi d’acciaio. All’interno
dei vassoi, svariate pietanze.
“Finalmente si
mangia!” esclamò l’altro uomo. Ermete a malapena riuscì ad accorgersi
dell’entrata della donna.
Questa porse ad
entrambi un piatto.
Quale che fosse
la ricetta, non aveva nulla di invitante.
Ad Ermete toccò
una sorta di brodino, nel quale galleggiavano dei cubetti simili a polistirolo.
Guardandolo, ebbe un’espressione contorta dal ribrezzo.
“E io dovrei
mangiare questa roba?” domandò al suo compagno di stanza.
L’uomo
sghignazzò, sorseggiando il suo sudicio sughetto.
“Coraggio, lo
provi! Non è male come sembra. All’inizio sa di catrame, ma poi ci si abitua e
non si riesce a farne a meno.”
“Catrame,
certo. Dopo sei mesi di sonno, non c’è nulla di meglio del catrame.”
“Ahahah! Lo
vede? Dovrebbe cercare di convertire la propria acidità in sarcasmo. Sarebbe un
ottimo intrattenitore.”
“Mi ricorderò
di chiederle consiglio su qualcosa non appena ne avrò bisogno. Ora mi lasci mangiare.”
Disse così, e fece per inserire in bocca il primo cubetto.
Il primo
cubetto, pochi istanti dopo essere entrato a contatto con la lingua di Ermete,
tornò a far compagnia agli altri all’interno del piatto.
L’altro uomo
rise di gusto, continuando a mangiare.
Ermete lo
ignorò, e si liberò dell’astruso nutrimento poggiandolo sul piccolo comodino al
lato del letto.
A quel punto notò che la porta della stanza era rimasta aperta. L’orrenda
infermiera era oltremodo sbadata.
Mentre l’uomo
continuava a riempirsi lo stomaco, Ermete allungò il busto per sbirciare al di fuori
della stanza. Tutto ciò che riuscì a scorgere fu il corridoio deserto e
silenzioso.
Senza che
potesse rendersene conto, aveva sperato inconsciamente che lì fuori ci fosse
qualcuno che lo stesse aspettando.
*****
“Lei ha detto
che io qui ci sono venuto da solo.” Ermete si rivolse al compagno di stanza, il
quale era ancora intento a pranzare.
“Prego?”
“Dico, ammesso
che io sia venuto qui da solo, perché lo avrei fatto? Non sono malato. Né
d’altro canto riesco a capire il perché di un sonno così lungo. Sono stato
ibernato, o cosa?”
L’uomo poggiò
il piatto e prese a ridere.
“Deve aver
visto un po’ troppi film, caro compagno. Lei è venuto qui perché aveva bisogno
di cure. Come tutti noi.”
“Quindi anche
lei è arrivato qui di sua volontà? Eppure mi pare che sia bello sveglio. O
forse le son bastati soltanto tre o quattro giorni di sonno?”
“Non sia
sciocco. Non abbiamo tutti lo stesso male. Ogni terapia è diversa e richiede
tempistiche differenti. Io, ad esempio, ho dormito per un anno e mezzo, ancor
prima che lei arrivasse qui.”
“E cosa ha
fatto nei mesi seguenti? E’ rimasto lì ad aspettare che mi svegliassi io, a
guardarmi mentre ronfavo?”
“Perdonami, ma
questa conversazione non può andare avanti in questo modo. Siamo quasi
coetanei, diamoci del tu.”
“Come vuoi. Non
sarebbe male che mi dicessi anche il tuo nome, a questo punto.”
“Mi chiamo
Polideuce.”
“Cavolo, un
gran bel nome. Scommetto che alle elementari ti prendevano in giro.”
“E’ di me o di
te che stiamo parlando?” ammiccò “Dietro la maggior parte dei nomi si nasconde
un significato, piccolo o grande che sia.”
Ermete rimase
un secondo a riflettere. Nel frattempo la luce del meriggio cominciò ad
illuminare le piastrelle sporche del pavimento.
“Ma voglio
rispondere alla tua domanda” riprese Polideuce “Nei mesi seguenti sono rimasto
qui per la terapia. Presto dovrebbe terminare, e a quel punto, con le cure
adatte, potrò tornare alla mia vita. O almeno è ciò che spero.”
“La terapia…in
cosa consiste?”
“Oh beh, nulla
di eccessivamente complicato. Certo, a volte può richiedere un po’ di tempo.
Consiste
fondamentalmente nel capire quale sia il male che ti ha spinto a ricoverarti.
Nel capire
perché sei qui.”
*****
“Dobbiamo fare
delle analisi.” disse il dottorino, riapparso magicamente nella stanza.
La conversazione
tra Ermete e Polideuce dovette quindi interrompersi.
Il piccolo uomo
dal bianco camice si avvicinò con decisione al letto del paziente novello
sveglio, munito di una siringa che pareva fatta in proporzione al braccio di
Godzilla.
“Dove crede di andare con quella cosa?” domandò Ermete.
“Suvvia,
giovanotto. Non vorrà farmi credere che alla sua età lei abbia ancora paura
delle punture? Devo farle solo un piccolo prelievo. E’ per le analisi. Prima le
facciamo, prima procediamo con le cure.” il dottore sorrise smagliante.
“Non sono
malato. Sono solo un po’ stanco.” replicò Ermete.
L’omino neppure sentì. Si sedette al lato del letto, prese con la manina il
braccio del paziente e al primo colpo beccò la vena giusta. Drenò via diversi
galloni di sangue. La siringa sembrava stesse per esplodere.
“Perfetto!”
disse il dottore, ammiccando.
“Al diavolo.”
fu la debole replica. Se avesse avuto forze sufficienti, Ermete avrebbe
volentieri preso a sberle quel nanetto in camice.
Dall’altro lato
della stanza provenivano le risa soffocate di Polideuce.
Il dottore
riprese.
“Adesso ci sarà
da aspettare un po’. Dopodiché, non appena avremo i risultati, decideremo come
organizzare la terapia. Posso misurarle la pressione?”
“No.”
L’omino
abbandonò la stanza lasciando alle sue spalle una scia di sorrisi.
Ermete si sentiva svuotato. Prese a guardarsi intorno, a squadrare ogni angolo
di quella lurida stanza.
Sporco.
Macchie.
Occhi sul
Kenya.
“Perché questo
posto è così fatiscente?” chiese rivolgendosi a Polideuce.
“Facile.
Mancanza di fondi. Lo Stato se ne infischia di cliniche come questa. In molti
non sanno neppure che esistano posti del genere. Ne consegue che anche i
pazienti che si ricoverano sono in numero ridottissimo.” rispose.
“Voglio
andarmene. Non sto male.”
“Sì, invece.
Stiamo tutti male.”
Un rumore di
oggetti metallici che cadono rovinosamente a terra provenne da non molto
lontano, nel corridoio. L’infermiera sbadata aveva colpito.
*****
Ermete rimase
muto per quasi tutto il pomeriggio, fermo a riflettere sulla sua condizione.
Non aveva
voglia di riprendere a parlare con Polideuce, nonostante continuassero a
balenargli in testa miriadi di domande che avrebbe voluto porgli.
Il silenzio si
ruppe.
“Quindici
orizzontale. ‘Corpo celeste’. Cinque lettere.”
Polideuce
teneva in mano una rivista di enigmistica e una Bic nera.
“Astro.”
rispose Ermete, quasi meccanicamente.
Poi si voltò
per ricevere il sorriso di ringraziamento del compagno di stanza.
“Usi la penna per fare i cruciverba?” domandò.
“Certamente.
Chi usa la matita non è sicuro delle proprie azioni. Crede che ci sia sempre la
possibilità di correggere gli errori. Di cancellare e rimediare.”
Ermete la
pensava allo stesso modo.
Passarono
alcuni minuti, nei quali Polideuce incasellò correttamente una decina di
parole.
Gli aloni sul
muro sembravano sciogliersi, mutare ad ogni secondo trascorso.
“Ancora non riesco a capire.” disse Ermete “Perché mi tieni nascosta la verità
su questo posto? Siamo forse malati terminali, e vuoi evitarmi il sapore della
realtà? O magari siamo matti, fuori di testa, è questo altro non è che un
istituto di salute mentale?”
Le parole di
Ermete tremavano.
“Non stiamo
morendo, Ermete. Né siamo matti. Assolutamente.” rispose con molta calma
Polideuce, tenendo lo sguardo fisso sul cruciverba.
“I matti non
fanno altro che ripetere di essere sani.”
“Ogni persona
dice sempre di non essere ciò che in realtà, nel profondo, è. E viceversa. Tu,
ad esempio, dici di non essere malato.”
Ermete tacque.
Si guardò le mani. Strinse i pugni sul lenzuolo sudicio. Tossì.
“Tu che
problema hai? Tumore? Spina dorsale? Diabete?”
Polideuce
smorfiò. Parola troppo lunga e caselle insufficienti.
“Niente di
tutto questo.” rispose ridente “Non vengono curati mali del genere qui. Per
queste cose c’è la Bilancia, o il Fatebenecugini. Ospedali di diverso tipo.”
“Dunque cosa
facciamo in questo posto? Qual è il nostro male? Che diavolo curano qui?”
Polideuce
chiuse la rivista, lasciando la penna nel mezzo a mo’ di segnalibro. Poi si
voltò verso Ermete.
“Circa un mese fa, nella stanza di fianco, c’era un paziente di nome Egocero.
Egli era rabbioso, violento, insoddisfatto. Era sempre pronto a menar le mani,
nei confronti di chiunque non gli desse ragione. Chiunque non andasse nella sua
stessa direzione. Una persona egocentrica. Desiderava ostinatamente che lo si
venerasse. Le infermiere e i dottori lo avevano soprannominato Narciso.
Buffo, no?”
“Non capisco.”
“A quanto pare però,
alla fine la sua terapia ha funzionato a meraviglia. Lo hanno curato. Ora
Egocero è una persona nuova. E’ guarito.”
Ermete cercava
di cogliere un qualche significato, ma il discorso continuava ad apparirgli
confuso.
“E’ di questo
che si tratta, dunque? Curare la rabbia? Calmare le persone?”
“Non abbiamo
tutti lo stesso male, Ermete.”
Ancora una
pausa.
Vassoi cadevano
nei corridoi.
“Anche Egocero venne qui di sua volontà?”
“Certo. Nessuno
si trova qui se non per desiderio personale. Chiunque prima o poi raggiunge il
limite, non riesce più a tener testa a se stesso. Soccombe lentamente sotto il
peso delle proprie azioni. Marcisce. Piange, urla, vomita.
Quando ciò
accade vi sono diversi modi di comportarsi a riguardo.
Alcuni, pochi
purtroppo, alla fine prendono una decisione. Si lasciano andare, chiudono gli
occhi, e al loro risveglio è qui che si ritrovano.”
Ad Ermete il
tutto suonava come qualcosa di assurdo, eppure allo stesso tempo vivido e
reale.
“E tu, invece?
Che male hai?”
“Io sono un
traditore, Ermete. Io ho tradito.”
Silenzio.
“Sei sposato,
Polideuce?”
“Forse.”
*****
La mattina seguente
Ermete ritrovò forze sufficienti per abbandonare il letto.
Alzatosi,
trascorse una buona mezz’ora a guardare fuori dalla finestra della stanza,
senza sporgersi.
Gli infissi di
plastica consunta inquadravano un giardino stepposo.
L’aria fuori
era più pulita.
Polideuce se ne
stava a letto a leggere un libro di qualche migliaio di pagine.
“Quanto tempo fa è successo?” domandò Ermete, senza distogliere lo sguardo
dagli alberi spogli che costeggiavano la pista ciclabile.
Polideuce alzò
lo sguardo, chiuse il libro e prese a parlare.
“Circa due anni fa. Senz’altro il periodo migliore della mia vita.
Scrivevo
racconti. Roba che pensavo fosse banale, e che nessuno avrebbe mai voluto
leggere. Storie di vita quotidiana con una spruzzata di assurdo. ‘Nulla di che’
pensavo.
Il caso volle che incontrassi questo piccolo editore. ‘I tuoi scritti sono
fantastici! Voglio pubblicarteli!’ disse. E lo fece.
La notorietà
arrivò subito, come un treno sparato a diecimila chilometri orari. Cominciai a
viaggiare in lungo e largo con la mia famiglia, a partecipare a convegni e a
presenziare nelle più grandi librerie di ogni città importante. Soldi e fama.
Se me l’avessero detto mentre buttavo giù i primi appunti, di certo non vi
avrei creduto.”
“Poi cosa
successe?”
Nel giardino una giovane donna passeggiava tenendo per mano un bambino dai
capelli color platino.
“Poi mi
scontrai con il fato. Ero a Verbalia, per l’uscita del mio secondo libro.
Firmavo dediche ed autografi. Facevo foto e sorrisi.
Una ragazza
emozionatissima mi porse il mio primo libro. Bella come un raggio di sole.
Giovane come l’acqua di fonte. Ma ciò che vidi io in quel momento altro non era
che la sua carne. Mi colpì dentro come una folgore.
All’epoca ero
in viaggio da mesi, e da altrettanto tempo non facevo sesso. Mia moglie aveva
frequenti emicranie.
Fu allora che
la tradii.
Il mio sbaglio.
L’errore.
L’amo ancora.”
Ermete assimilò la storia con gelido distacco. Impassibile, e senza mostrare un
briciolo di compassione, rimaneva ad osservare il bambino che giocava con il
pallone in mezzo all’erba alta. La madre, seduta su una panchina, leggeva una
rivista scientifica.
“Devi averle
fatto molto male. Più di quanto credi. E’ dunque per lei che hai deciso di
ricoverarti?”
“Per lei, e per
le mie figlie. Euterpe, Erato. Le mie gemelle. Da quando sono qui non le ho più
riviste.”
A quel punto
Ermete si voltò.
Guardò in
direzione della porta, nel corridoio.
Non v’era
nessuno.
Nessuno lo
aspettava.
“Riesci a capire adesso? Ognuno di noi commette errori. Ognuno porta con sé un
male. E il mio è qui.” disse poi Polideuce, ticchettandosi sulla tempia con un
dito.
“Il problema è
nella mia testa. Distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. Frenare
gli istinti. Voler bene a chi davvero lo merita. Essere fiduciosi e dare
fiducia. Non tradire. Il mio problema è qui. Io sono venuto in questo posto
perché voglio guarire.”
Fece una breve
pausa. Strinse con forza tra le mani il suo libro. Ermete rimaneva in silenzio.
“Io non so
perché, ma ho la sensazione che tu riesca a capire perfettamente quello che ti
sto dicendo.
Non dovremmo
mai farci del male l’un l’altro.
Tu, Ermete, hai
mai fatto del male a qualcuno?”
Giù nel cortile, il bambino giocava. Sorrideva alla madre che da lontano lo
vedeva e lo salutava.
A quella
visione, Ermete provò uno strano senso di nostalgia.
Il bambino
inciampò nel rincorrere il pallone. Si era sbucciato un ginocchio. Piangeva.
La madre gli
asciugò via il sangue con un bel fazzoletto viola.
*****
Quando si
svegliò, il soffitto slittava veloce sopra i suoi occhi.
Luci al neon in
sequenza rapida.
La lettiga
sulla quale si stava muovendo barcollava.
Ai suoi
fianchi, due infermiere lo guidavano attraverso i corridoi.
Confusione.
“Che succede?
Dove mi state portando?”
Gli rispose una
delle due donne, senza guardarlo in faccia.
“Le analisi,
Ermete. Hanno dato esito negativo. Dobbiamo operarla di urgenza, altrimenti non
guarirà.”
“Operarmi? Ma
io non sono malato! Lasciatemi andare!”
‘Non sto male’.
Curva
insidiosa.
‘Voglio andare
via da qui’.
Luci al neon.
‘Nessuna
macchia’.
Intermittenza.
‘Kenya’.
“Da questa
parte.” disse l’altra donna.
“Che diavolo
state facendo? Chi vi da’ il permesso?”
“E’ una sua
volontà, Ermete. Dobbiamo operarla.” rispose il dottore, accostatosi a grandi
passi nei pressi del lettino.
Entrarono in
una piccola sala dove un’equipe di medici era intenta ai preparativi.
“Operarmi?
Perché? Dove?”
Il dottore gli
poggiò la mano sulla spalla, stringendo forte.
“Al cuore,
Ermete.
La operiamo al
cuore.”
L’infermiera
avvicinò al volto del paziente la maschera per anestesia.
Ermete richiuse
gli occhi.